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La Pittura che parla all’animo, l’arte di Fabio Valente

La pittura di Fabio Valente è la dimostrazione tangibile che quasi trent’anni di storia dell’arte sembrano essere trascorsi sprecati.

Oltre la materia per arrivare al linguaggio dei sensi. Oltre le mode, tanto amate dalla critica militante, per non cedere il passo al vuoto di fondo – camuffato da qualche orpello, passato per minimalismo estetico – di cui certi amano vantarsi. Oltre l’accademismo pittorico per non interrompere la percezione visiva che si consuma in poco tempo: in un breve attimo – eppure ampio abbastanza – quando l’immagine viene filtrata dalla sensibilità dell’individuo.

Ed è in quell’istante infinito, interminabile, che l’arte diventa valore: messaggio puro che tocca le corde più recondite dell’animo.

La pittura di Fabio Valente è la dimostrazione tangibile che quasi trent’anni di storia dell’arte sembrano essere trascorsi sprecati: artisti in preda a un isterismo collettivo, impegnati in provocazioni spesso di pessimo gusto, hanno preferito preoccuparsi più dell’apparire che dell’essere, forti dello star system che ne ha sempre tessuto le lodi, con il solo obiettivo di far lievitare i compensi.

Così si è consumata una violenta frammentazione tra i saperi; una lacerazione, a cui pochi hanno messo fine, tra autore e fruitore. E’ pur vero che l’arte non si esaurisce al solo concetto di bello, che, essendo “una cosa in sé”, è indefinibile, pur tuttavia è diventata la vetrina dei tempi nei quali è stata prodotta. Fabio Valente si nutre dell’arte stessa, prima ancora che rappresentarla.

Un percorso il suo, a mò di scala, che, attingendo dalla materia pittorica, lo porta alla catarsi: uno stato di grazia della mente e del corpo. Colori pastello, tinte che traggono dalla natura la loro essenza vitale, e che spaziano dal verde, dall’azzurro, dai toni pastosi delle terre, dei marroni bruciati, o dal chiarore di sfumature leggere, sono spalmati, grazie a un perfetto controllo cromatico, su grandi tele. Coprono, con pennellate veloci, l’una accanto all’altra, buttate giù, in maniera decisa, per non perdere l’emotività che il soggetto trasmette, ampie campiture, in cui anche negli acrilici astratti rimane, come traccia indelebile, il ricordo costante della corrente figurativa.

E’ una sperimentazione instancabile la ricerca personale avviata da Valente. Abbandonata la tecnica ad olio per i tempi di posa e di essiccazione del colore, l’artista si avvicina a una tavolozza che gli consente di esplorare, attraverso una pigmentazione meno denso e più brillante, nuovi orizzonti matrici.

E, al di là della cifra stilistica dell’autore, se proprio si vuole far emergere un legame con una precisa connotazione artistica, allora la radice non va ricercata nell’astrattismo in genere, né europeo e neppure in quello americano, ma, semmai, negli epigoni dei post impressionismo.

Al telefono mi risponde gentile: è sorpreso; quasi imbarazzato della mia chiamata. “Per favore non mi chiami artista! – Esordisce, spiazzandomi subito. La pittura è per me è un’esigenza. E’ difficile definire lavoro ciò che si ama veramente. Io ho trovato nei colori un rifugio. Il bisogno di cercare una dimensione più intima che la quotidianità ha cancellato; ha finito per travolgerci, fagocitandoci nei suoi ritmi opprimenti. Sara’, probabilmente, il prezzo che dobbiamo pagare al progresso”. Da qui la scelta di Valente di abbandonare Milano.

La rutilante metropoli da bere, insieme al suo mito sempre più appannato, gli toglieva il respiro.

Oggi, superati i quaranta, vive a Bolzano, dove, accanto alla sua professione di marketing e comunicazione digitale, alterna spazi da dedicare a “quel benessere interiore”, che si traduce ora in sfumati accostamenti cromatici, ora in dinamiche rappresentazioni del vero, ora in riverberi di luce che smaterializzano la fisicità della tela in cerca di un’essenza più profonda e impalpabile.

“Sto rimettendo ordine nel mio percorso, partendo dalle origini e dalla mia formazione di autodidatta. Non le nascondo che mi piacerebbe ritornare a esporre i miei lavori. Mi manca il contatto con il pubblico. Ecco, immagino una sala raccolta, in cui tenere una piccola mostra, anche se il confronto mi spaventa. E’ passato un po’ di tempo. La verità è che non mi sento ancora pronto.

Sarà un passo graduale: non amo le costrizioni e poi chi mi obbliga a correre? L’arte – scusi: so di essere ripetitivo – appaga una mia necessità e non importa se resto fermo ancora qualche anno.

Che cosa può cambiare”? In teoria niente, o almeno. Ma perché privare gli altri della meraviglia delle seduzioni infinite che le opere di Valente sanno regalare?

di Elviro Di Meo.

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